Perché continuo a creare contenuti umani in un mondo di Algoritmi, Social e AI

Stiamo vivendo un’epoca praticamente folle. Un’epoca piena di rivoluzioni silenziose, di cambiamenti che avvengono mentre scorriamo il dito sullo schermo. Da una parte chi ci governa, dall’altra i padroni delle piattaforme, in mezzo noi: creativi, fotografi, persone che provano a raccontare qualcosa in questo rumore di fondo infinito. È un’epoca talmente piena di cose – piena di contenuti, di notifiche, di stimoli – che facciamo fatica persino a scegliere cosa guardare e, ancora di più, cosa creare.

Spesso sento dire: “La gente non ha più tempo”. Io penso un’altra cosa: la gente non vuole più avere tempo. Siamo stati educati – e ci stanno ancora educando – a vivere nella frenesia, nei secondi, nel tutto e subito. Non c’è più spazio per una visione lenta, per un video ragionato, per un contenuto che ti chiede di restare. Eppure io continuo a sentire il bisogno di fare proprio questo: rallentare, approfondire, creare qualcosa che non sia solo un riempitivo tra uno swipe e l’altro.

Questo non è uno sfogo, non è un piagnisteo contro l’algoritmo o contro il “sistema”. È una condivisione di pensieri. È il tentativo di mettere in fila quello che vivo ogni giorno come fotografo e creator, e di raccontarti perché continuo a fare quello che faccio, anche se – a volte – sembra di remare controcorrente.

 

Chi sono e perché scrivo questo

Mi chiamo Walter Stolfi, vengo da un piccolo paese del sud Italia e per anni la mia vita non aveva niente a che fare con i viaggi, le fotocamere e YouTube. Ho fatto mille lavori, ho provato strade “sicure”, mi sono infilato in percorsi che sulla carta avevano senso ma che dentro non sentivo miei. A un certo punto ho capito che stavo cercando di adattarmi a una vita che non avevo scelto davvero.

La fotografia è arrivata prima come curiosità, poi come ossessione, poi come linguaggio. Ho iniziato a viaggiare, a camminare con la macchina fotografica in mano, a guardare le città in modo diverso. Ho aperto un canale YouTube, un blog, ho iniziato a raccontare storie: non solo i luoghi, ma quello che succede dentro di me quando fotografo. Nel tempo tutto questo è diventato il mio lavoro, ma soprattutto il mio modo di stare al mondo.

Da quando ho iniziato a creare contenuti, però, ho capito subito una cosa: le piattaforme su cui pubblichiamo non sono neutre. Non sono lì per “premiare il merito”. Hanno le loro regole, le loro priorità, i loro interessi. Gli algoritmi non guardano la profondità di quello che fai. Guardano solo come la gente reagisce. È qui che nasce la tensione con cui faccio i conti ogni giorno: da una parte c’è l’esigenza di lavorare, di crescere, di farmi conoscere. Dall’altra c’è il bisogno di proteggere il mio sguardo, la mia voce, la mia fotografia.

Io non voglio diventare l’ennesimo profilo che pubblica cose solo perché funzionano. Voglio continuare a creare qualcosa che mi rappresenti. Per questo dico sempre una frase che per me è diventata una specie di bussola: gli algoritmi misurano le reazioni, io voglio misurare le relazioni. È da qui che nasce questo articolo.

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Un’epoca folle di contenuti e frenesia sui social

Se oggi apri YouTube, Instagram, TikTok, ti rendi conto subito di una cosa: c’è troppo di tutto. Troppi video, troppi reel, troppi short, troppi podcast, troppi caroselli, troppi “contenuti di valore”. Chiunque può prendere un telefono, registrare cinquanta clip in una giornata e buttarle online senza pensarci più di tanto. Prendi e posti, prendi e posti, prendi e posti. Nessuna selezione, nessuna cura, nessuna idea dietro. Solo volume.

Il problema è che questa logica non riguarda solo chi pubblica, ma anche chi guarda. Ci hanno abituati a consumare contenuti come si mangiano patatine: una tira l’altra, non ti ricordi nemmeno il sapore, continui solo perché sono lì. E allora le piattaforme si adattano. Se le persone scorrono veloce, i contenuti devono essere sempre più veloci. Se l’attenzione si è ridotta a pochi secondi, tutto va progettato per quei pochi secondi.

Così nascono le regole non scritte del gioco: titoli urlati, thumbnail esagerate, hook iniziali, montaggio rapidissimo, zero silenzi. Tutto deve catturarti subito, altrimenti sei fuori. È in questo contesto che, inevitabilmente, i contenuti più profondi fanno fatica a respirare. Non perché siano “migliori” in assoluto, ma perché chiedono una cosa che l’ecosistema non vuole più concedere: tempo.

E qui arrivo al punto: io non sono d’accordo con questa corsa. Non mi interessa adeguarmi alla frenesia solo perché “così si cresce”. Preferisco avere meno persone, ma presenti davvero, piuttosto che tante visualizzazioni di passaggio.

 

Algoritmi dei social e di YouTube: perché rovinano (anche) la nostra arte

Negli ultimi anni ho sentito parlare spesso di “algoritmo” come se fosse una specie di divinità capricciosa a cui bisogna sacrificare tutto. Orari di pubblicazione, frequenza, formato, durata, argomenti. Se non gli dai quello che vuole, non ti premia. E quello che vuole, quasi sempre, è intrattenimento veloce, cose che si capiscono in mezzo secondo, contenuti che non ti chiedono nessuno sforzo.

Il risultato è che piattaforme come YouTube non sono affatto meritocratiche. Non vince chi fa i contenuti più interessanti, ma chi interpreta meglio il ruolo che l’algoritmo ha messo in palinsesto per lui. In Italia, per esempio, nel mondo della fotografia lo vedo chiarissimo: se fai video di storytelling, di viaggio, di riflessione, spesso faticano a decollare. Se fai l’ennesima recensione dell’ennesima fotocamera, esplodono.

Se io pubblico un video come questo di cui nasce questo articolo – seduto su una panchina, al parco, con un lago alle spalle, a parlare di algoritmi, AI, fotografia, senso di quello che facciamo – magari lo vedono cento persone. Se domani pubblico un video intitolato “La MIGLIORE fotocamera del 2025 per la street photography”, improvvisamente le visualizzazioni si moltiplicano. Non perché il secondo sia necessariamente più utile, ma perché l’algoritmo sa come “vendere” quella cosa. Sa che la gente ci clicca. Sa che può trasformarla in numeri.

Io però non sono un negozio di fotocamere. Non sono un commesso digitale che deve spingere sempre il nuovo modello. Le recensioni le faccio, ma le faccio soprattutto sul mio blog, perché lì hanno più senso: puoi leggerle con calma, confrontare dati, tornare quando ti serve. Su YouTube voglio raccontare storie, voglio portarti con me in viaggio, voglio farti vedere posti e persone, non solo schede tecniche.

Il problema è che l’algoritmo questo non lo capisce. Non riconosce la fatica di cambiare dieci inquadrature per un singolo discorso, di registrare in esterna, di lavorare sull’audio, sul montaggio, sulla narrazione. Per lui un mio video di storytelling vale meno di un balletto improvvisato, di un outfit check, di una challenge assurda alla MrBeast. Non ho nulla contro MrBeast o chi fa quei numeri – anzi, dietro ci sono produzioni gigantesche, cervelli che lavorano, strutture alla Netflix – ma il tipo di contenuto che viene premiato è quasi sempre puro intrattenimento. E quando tutto diventa solo intrattenimento, l’arte, la fotografia, i contenuti più delicati finiscono sul fondo.

 

Intelligenza artificiale e contenuti: strumento sì, autore no

In mezzo a tutto questo è arrivata lei: l’intelligenza artificiale. E qui la rivoluzione si è fatta ancora più evidente. Oggi puoi generare un testo in pochi secondi, un’immagine fotorealistica con una frase, una voce che sembra umana, addirittura un intero video. Puoi costruire un profilo social intero senza che ci sia mai stata una persona davanti alla camera.

Io non sono contro l’AI. La uso, la sto usando anche adesso come supporto per mettere in ordine dei pensieri che sono completamente miei. La uso per fare ricerca, per trovare spunti, per semplificare alcune parti del lavoro. È uno strumento. Il rischio però è dimenticare che è solo questo: uno strumento.

Se l’AI diventa la scorciatoia per riempire ancora di più le piattaforme di contenuti vuoti, allora abbiamo un problema. Se la usiamo solo per aumentare la quantità, senza chiederci nulla sulla qualità, sul senso, sull’intenzione, finiamo per trasformare Internet in un’enorme discarica di roba tutta uguale. Mille video che si somigliano, mille testi con lo stesso tono, mille immagini perfette ma senza anima.

L’AI ti può dare quantità. Può aiutarti a organizzare, velocizzare, correggere. Ma una cosa non potrà mai farla: vivere al posto tuo. Non può sentire l’odore di un mercato dall’altra parte del mondo, il rumore di una città alle sei del mattino, l’imbarazzo del primo video parlato davanti alla camera, la fatica di correre al parco e poi fermarti a registrare con il fiatone, la luce della blue hour che cala dietro un lago mentre continui a parlare. Tutte queste cose hanno un peso nei contenuti che creiamo. Sono quelle che arrivano alle persone.

Per questo dico che l’AI non è il nemico, ma può diventarlo se smettiamo di metterci al centro. Se smettiamo di essere umani, restiamo solo rumore preconfezionato.

 

Strategie, guru e sala da ballo: crescere sui social in un mondo saturo

In questi anni ho provato anch’io a seguire le regole del gioco. Ho ascoltato i guru che dicevano: pubblica tutti i giorni, anzi più volte al giorno; fai short, reel, estratti; sii ovunque; non saltare una settimana; programma, pianifica, automatizza. La versione Gary V dei contenuti: quarantina di post al giorno, cinquanta video a settimana, costanza maniacale.

Ci ho creduto per un po’. Ho fatto la prova sul campo. Sono passato da pubblicare un video a settimana a fare anche due video lunghi, più short estratti, più foto ogni giorno su Instagram, più reel. Ho sovraccaricato il sistema e mi sono sovraccaricato io. Risultato? Non è cambiato quasi niente.

Le piattaforme non sono vuote in attesa dei tuoi contenuti. Sono già strapiene. Qui mi piace usare una metafora che ho sentito dal mio grande amico Giuliano: immagina una sala da ballo piccola, piena di ballerini. Tutti ballano, tutti cercano di mettersi in mostra. I giudici sono in fondo alla sala e dovrebbero valutare chi balla meglio. Ma la sala è talmente piena che non vedono niente. Anche se sei bravissimo, rischi di passare inosservato perché c’è troppo movimento, troppo affollamento.

Ecco, oggi i social sono quella sala da ballo. Puoi seguire tutte le strategie del mondo, ma se la stanza è satura e i giudici – cioè gli algoritmi – guardano solo chi fa più casino, è normale che a emergere sia spesso chi urla di più, non chi balla meglio.

 

Il caso Sabong: quando l’algoritmo punisce i contenuti di qualità

Ho fatto tanti video che credo abbiano qualità e un messaggio, ma nonostante il grande impegno, i miei sforzi non sono quasi mai stati premiati. C’è un episodio in particolare che per me riassume bene tutto questo discorso. Qualche tempo fa ho pubblicato sul mio canale un video su una pratica tipica delle Filippine: il combattimento dei galli, il Sabong. Non era un video di gore, non era un elogio della violenza. Era un racconto. Ho passato giorni a girare e cercare di entrare in qualche arena, a fotografare, a montare. Ho cercato di spiegare il contesto culturale, di mostrare quella realtà con rispetto, di far vedere qualcosa che quasi nessuno conosce da qui.

Carico il video su YouTube, lo pubblico, e dopo poco arriva la risposta della piattaforma: contenuto non adatto, limitato, praticamente affondato. Non lo tolgono, ma lo nascondono. Lo fanno sparire dal radar. Tutto quel lavoro, tutte quelle ore, la voglia di portare una storia diversa… schiacciate in un secondo da un flag automatico.

Questo non succede con il classico video “harmless” che fa ridere, con la challenge, con la recensione della fotocamera. No. Succede quando provi a spostare un po’ l’asticella, a parlare di cose che non sono comode, che non sono immediate. È qui che capisci che non puoi dipendere emotivamente da quello che l’algoritmo decide di fare con il tuo lavoro.

Se lasci che sia lui a dirti se quello che fai vale o no, sei finito.

 

Blog, newsletter e corsi: crescere fuori dagli algoritmi

A un certo punto mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: “Ha senso continuare a regalare tutto questo sforzo alle piattaforme, sperando che un giorno si accorgano di me?”. La risposta è stata no. Non così, almeno.

Così ho iniziato a spostare il baricentro. Meno quantità sui social, più qualità in casa mia: il blog, la newsletter, i miei corsi, le coaching one‑to‑one. Ho ridotto le pubblicazioni “tanto per” e ho iniziato a pensare di più a cosa voglio davvero lasciare alle persone che mi seguono.

Paradossalmente, da quando pubblico meno e meglio, i risultati veri sono aumentati. Non parlo di views. Parlo di messaggi, mail, persone che mi scrivono per fare una call insieme, per chiedermi consigli sulla loro fotografia, per acquistare i miei corsi di base o di street. Il blog è diventato un punto di riferimento per chi cerca recensioni fatte da uno che le fotocamere le usa per lavorare, non solo per testarle. La newsletter è diventata il posto dove racconto cose che non metto da nessun’altra parte: pezzi di vita, riflessioni, storie di viaggio.

Quando ti sposti dal feed a spazi più intimi, ti accorgi che le persone che restano sono quelle che ti scelgono davvero. Non sei più uno tra tanti che capitano nel “per te”. Sei un appuntamento. Qualcuno che decidono di leggere, di ascoltare, di seguire nel tempo.

E questo, credimi, vale molto di più di qualche numero in più sotto un video.

 

Numeri, collaborazioni e brand: cosa conta davvero per un content creator

Sui numeri bisogna essere onesti: servono. In un mondo perfetto conterebbe solo la qualità di quello che fai, ma non viviamo in un mondo perfetto. I brand guardano i follower, le views, le metriche. Puoi anche fare il video più bello del mondo, ma se non hai “i numeri” giusti spesso non ti chiamano. Ed è una cosa triste, ma è così.

Quello che mi fa sorridere amaramente è vedere profili che in pochi mesi passano da duemila a trentamila follower in un’epoca in cui la crescita organica è lentissima. Non è impossibile, per carità, ci sono sempre eccezioni. Ma nella maggior parte dei casi dietro ci sono bot, app di crescita, agenzie che pompano i profili per renderli appetibili ai brand. Così si crea un cortocircuito: il mercato valuta in base ai numeri, i numeri si possono comprare o gonfiare, e chi lavora con onestà resta indietro.

Con l’AI tutto questo si complica ancora di più. Perché non si tratta più solo di gonfiare i follower, ma di gonfiare anche i contenuti: testi, immagini, video creati in serie, senza un vissuto. E allora ti chiedi: quando un brand decide di collaborare, su cosa si basa? Sulla vera capacità creativa di una persona o sulla capacità di “fare rumore” nel modo giusto?

Se un giorno dovessi essere io a scegliere con chi collaborare, sceglierei sempre qualcuno che ha qualcosa da dire, che è reale, che ci mette la faccia. Magari con numeri più piccoli, ma con una community vera, non di passaggio. Perché sono convinto che, alla lunga, il fattore umano vincerà. Puoi anche farti aiutare dall’AI, ma se dietro non c’è una persona che sente, che vive, che rischia, quel contenuto non regge.

 

Fare, creare, senza paura: restare umani nell’era di AI e algoritmi

In mezzo a tutto questo caos – algoritmi, AI, numeri, strategie – ogni tanto mi fermo, respiro e mi chiedo: “Perché ho iniziato?”. Non ho preso in mano una fotocamera per fare views. Non ho aperto YouTube per inseguire trend. Ho iniziato perché avevo bisogno di raccontare. Di raccontare il mondo e, attraverso il mondo, raccontare me.

In questi giorni ho visto creator enormi come Peter McKinnon dire una cosa molto semplice: fregatene dei numeri, della vergogna, del giudizio. Metti la camera davanti a te, fai la foto, registra il video, condividilo. Non aspettare di essere perfetto, non aspettare il momento giusto, non aspettare il format che piace all’algoritmo. Fallo e basta.

Questo, in fondo, è anche il mio messaggio. Non fermarti solo perché l’algoritmo non spinge i tuoi contenuti. Non smettere solo perché il tuo video più onesto ha fatto meno views dell’ennesimo trend stupido. Non trasformarti in qualcosa che non sei solo per “funzionare”.

Fai, crea, senza paura. Senza sperare ossessivamente che quello che pubblichi diventi virale. Sii te stesso davanti alla camera, nelle tue foto, nei tuoi testi. Credi in quello che fai con passione, mettici le mani, la faccia, la voce. I risultati arriveranno di conseguenza, magari più lentamente, magari in modi diversi da quelli che immagini oggi. Ma nel frattempo succederà qualcosa di più importante: ti ritroverai. Ti riconoscerai in quello che fai. E chi ti seguirà non lo farà per caso, ma per scelta.

Io voglio continuare a rendere questo posto – internet, YouTube, i social – un posto un po’ migliore. Anche solo per poche persone alla volta. Se questo articolo ti è arrivato, anche solo in una riga, vuol dire che ne è valsa la pena.

 

Restiamo in contatto: dove continuare la conversazione

Se ti va di continuare questo viaggio insieme, ti lascio qui qualche strada per farlo:

  • Newsletter – È il posto più intimo: ogni tanto ti scrivo per raccontarti qualcosa che non condivido da nessun’altra parte, tra fotografia, viaggi e vita vissuta.

  • Blog – Qui trovi recensioni oneste, guide, riflessioni lunghe come questa, tutte pensate per chi vuole andare oltre lo scroll.

  • Corsi di fotografia – Ho creato un corso base e uno dedicato alla street photography per aiutarti a costruire davvero il tuo sguardo, non solo la tua tecnica.

  • YouTube – Sul canale trovi vlog di viaggio, storytelling, dietro le quinte, esperimenti. Non sempre “algoritmo‑friendly”, ma sempre sinceri.

  • Coaching online – Sessioni 1:1 Personalizzate in base al tuo stile e ai tuoi obiettivi.

  • Workshop – Un’esperienza dal vivo immersiva tra tecnica, racconto e condivisione.

Supporta il tuo creator preferito, anche se non è MrBeast. Anche se ha pochi numeri, ma quello che fa ti arriva. Se credi in me, se ti ritrovi in queste parole, puoi iniziare semplicemente così: leggendo, guardando, iscrivendoti, condividendo quello che ti fa bene.

 

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