Fotografia come bussola nel caos: un grido della generazione bloccata
Qualche giorno fa stavo ascoltando un podcast che parlava di disagio generazionale, di come oggi — nonostante abbiamo tutto — stiamo male. Mi ha toccato profondamente. Così ho iniziato a riflettere. Ho pensato ai miei nipoti, ai figli dei miei amici, ai tanti ragazzi che vedo in giro, spaesati, disconnessi, stanchi prima ancora di cominciare a vivere davvero.
E in un attimo è come se fossi tornato anch’io a 20 anni.
Mi sono rivisto lì, con le stesse paure, lo stesso vuoto addosso. E allora mi sono messo a scrivere questo articolo, come se stessi parlando con loro — ma anche con me stesso, con quel Walter che avrebbe avuto tanto bisogno di sentirsi dire certe cose.
Perché se a 19 anni qualcuno mi avesse detto:
“Sperimenta, sbaglia, cerca la tua voce, fregatene del posto fisso”,
oggi sarei vent’anni avanti.
Ma nessuno me lo ha detto. E così ho inseguito per anni un'idea di stabilità che oggi nemmeno esiste più. Non c’erano riferimenti. Nessuno che ti mostrasse una strada alternativa.
E oggi, quando ci penso, mi prende quasi rabbia — perché capisco quanto sarebbe stato prezioso sentirsi dire che un’altra via era possibile.
Ma forse non lo dicevano perché non avevano la forza. Perché quando torni a casa dopo dieci ore in un lavoro che odi, non hai l’energia per insegnare a tuo figlio a credere nei sogni.
E non è colpa loro.
È che nessuno glielo ha mai insegnato.
Chi sono, e perché ho scritto questo articolo
Mi chiamo Walter Stolfi, e sono un Fotografo e Content Creator [ scopri di più su di me ]. Ma prima ancora sono una persona che ha faticato per trovare la sua strada. Per anni ho inseguito modelli che non mi appartenevano, fino a quando la fotografia — e il lavoro su me stesso — mi hanno permesso di cambiare prospettiva.
Ho scritto questo articolo perché vedo tanti ragazzi, come lo ero io, sentirsi bloccati, confusi, invisibili. E se anche solo uno di loro, leggendo queste parole, riesce a sentirsi meno solo… allora ha senso aver scritto questo articolo.
Viviamo nell’epoca dell’abbondanza, ma stiamo male
Abbiamo tutto: il cibo ci arriva a casa con un’app, la tecnologia ci connette con chiunque in ogni parte del mondo, possiamo lavorare da remoto, viaggiare low-cost, imparare gratis qualsiasi cosa.
Eppure stiamo male. Ansia, burnout, depressione, dipendenze emotive e digitali sono la nuova normalità. Siamo disconnessi. Dal corpo, dalla natura, da noi stessi.
Viviamo in una bolla costante di stimoli e distrazioni. Abbiamo tutto, ma ci manca il senso. Non sappiamo più cosa ci piace davvero, cosa vogliamo, chi siamo.
E il paradosso è che, mentre tutto ci viene servito su un piatto d’argento, abbiamo perso il gusto di cercare.
E poi c’è un altro paradosso ancora più sottile:
l’abbondanza ha tolto la fame.
La fame di mettersi in gioco, di scoprire, di desiderare qualcosa di più. Molti ragazzi oggi si sentono in trappola.
Chiusi in una gabbia dorata fatta di protezione, comfort e “sicurezze” imposte. Genitori iperprotettivi che, pur con amore, li tengono sotto una campana di vetro.
Ma una campana di vetro, anche se trasparente, non è libertà.
Ed è per questo che tanti giovani vogliono evadere. Perché troppa sicurezza, troppa protezione, li fa sentire soffocati. La verità è che non si cresce davvero quando tutto ti è concesso. Si cresce quando capisci che là fuori c’è qualcosa di meglio — ma te lo devi guadagnare.
Solo allora inizi a desiderare davvero.
Solo allora ciò che ottieni inizia ad avere senso.
Perché i giovani oggi stanno peggio dei loro genitori
Spesso sento dire: “I nostri genitori hanno avuto una vita più dura”. Sì, sicuramente c’erano meno comfort, meno diritti, meno possibilità. Ma paradossalmente, proprio per questo, avevano un grande vantaggio: la chiarezza.
Sapevano che se studiavi, trovavi un lavoro. Se lavoravi, facevi carriera. Se risparmiavi, un giorno avresti comprato casa. Poche strade, ma ben segnalate. E chi ce la faceva, te lo faceva pesare come un traguardo assoluto.
Oggi invece ci svegliamo ogni giorno con mille strade davanti, ma nessuna vera direzione. Viviamo immersi nell’incertezza e nel cambiamento continuo. I nostri genitori ci hanno trasmesso i loro valori con amore, ma quei valori oggi fanno fatica a reggere il colpo.
Perché il mondo non è più lo stesso. I lavori non sono più gli stessi. E continueranno a cambiare, sempre più in fretta. L’idea del “posto fisso” oggi è quasi una fantasia nostalgica. Se era fragile già prima, oggi è diventata una vera illusione.
E poi c’è l’intelligenza artificiale, che ha cambiato completamente le regole del gioco.
L’AI oggi può scrivere, creare, programmare, tradurre, progettare. E lo fa in pochi secondi. Mestieri interi stanno scomparendo o trasformandosi. Altri nasceranno, ma ancora non li conosciamo nemmeno.
Questo è ciò che rende così difficile essere giovani oggi:
vivere in un mondo dove tutto cambia alla velocità della luce, ma con valori ereditati da un’epoca che si muoveva lentamente.
Ecco perché quando ci dicono “sei libero di fare quello che vuoi”, non è vero.
Perché se nasci in un contesto svantaggiato, con genitori stanchi, in un ambiente che non ti sostiene, quella libertà è solo teorica. Non sei libero. Sei incastrato. E questa è una realtà che nessuno vuole ammettere.
Tanti ragazzi oggi si sentono rotti, ma non perché sono fragili.
Perché nessuno ha dato loro gli strumenti per navigare in un mare completamente nuovo.
Quando i genitori non hanno più fiato per motivare
Lo so, non ho figli, e qualcuno leggendo potrebbe pensare: “Ma tu che ne sai?”
È una domanda legittima, ma proprio perché non sono genitore, posso osservare le cose in modo più distaccato. Con occhi lucidi. Posso vedere dinamiche che, quando ci sei dentro, spesso non riesci nemmeno a nominare.
Mi ritengo un osservatore attento.
Vedo i miei nipoti, i figli dei miei amici, i ragazzi per strada.
E vedo lo scollamento totale tra due mondi: quello degli adulti che cercano di educare come si faceva 30 anni fa, e quello dei giovani che oggi crescono immersi in un universo completamente diverso.
Con altri stimoli, altri linguaggi, altri codici.
Mi capita spesso di sentire genitori dire frasi come:
“Mio figlio è sempre al telefono. Alla sua età io stavo in strada, in bici, a giocare. Gli smartphone li stanno rovinando.”
E capisco la frustrazione.
Anche io penso che passare ore davanti a uno schermo non sia sano.
Ma forse, prima di punirli o etichettarli, bisognerebbe chiedersi una cosa molto semplice: perché lo fanno?
Se un ragazzo si chiude nel digitale, magari è perché quello che vive nel mondo reale non lo stimola, non lo interessa, non lo accoglie.
Evade.
Non vuol dire che abbia ragione, ma qualcosa sta cercando.
E se lo ignoriamo, ci stiamo perdendo un’occasione per capirlo.
Anche se ti sembra assurdo che segua un gameplay, che sogni di fare streaming o che passi ore su YouTube, forse quello è solo il suo modo per provare a comunicare chi è. E se non lo ascolti, quella voce potrebbe spegnersi.
Un altro genitore una volta mi disse:
“I miei figli restano con me finché non li ho istruiti per bene, poi possono andarsene.”
E lo capisco: è la paura che parla.
La paura di vederli sbagliare, di perderli, di lasciarli in un mondo che oggi sembra molto più pericoloso di quello in cui siamo cresciuti noi.
Ma la verità è che tuo figlio può prendere una brutta strada anche se lo tieni chiuso in casa fino a quarant’anni.
Non serve proteggerlo da tutto.
Serve educarlo alla complessità.
Serve trasmettere valori, non regole.
Serve insegnargli a navigare le tempeste, non a rimanere fermo al porto.
Fotografia: la mia uscita di emergenza
La fotografia mi ha salvato, ma non è stato un colpo di fortuna. Prima di arrivare lì, ho dovuto fermarmi, guardarmi dentro e farmi domande scomode.
Ho fatto terapia, ho letto, ho sbagliato. Ho preso strade sbagliate, ma ho iniziato a capire.
Con una macchina fotografica in mano, finalmente vedevo.
Rallentavo. Respiravo.
Fotografare per me è stato come trovare un’uscita di emergenza in un edificio senza finestre. Mi ha dato un linguaggio. Un modo per dire: “Io ci sono”, senza bisogno di urlare.
Quando cammino per strada con la macchina al collo, tutto il resto sparisce, I social, il confronto, il rumore.
Resto io, la luce, e l’attimo che sta per svanire. Ed è lì che, piano piano, mi ritrovo.
Fotografare è diventato un atto di resistenza.
In un mondo che ti vuole spettatore, io ho scelto di essere autore.
La Fotografia di Viaggio, in particolare, è l’antidoto perfetto alla distrazione cronica: richiede lentezza, osservazione, pazienza.
Ti riporta nel corpo, ti obbliga a esserci e questo è potentissimo.
Scatto per ricordare, certo ma anche per resistere e per non farmi trascinare via.
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Cerca la tua strada, anche se non è la fotografia
La fotografia è stata la mia cura. Ma per te potrebbe essere tutt’altro: la musica, la scrittura, la cucina, l’artigianato, il viaggio, non importa cosa, importa cercarlo.
Ma prima, devi lavorare su di te. Devi scrollarti di dosso ciò che ti è stato imposto e iniziare a costruire ciò che vuoi essere. Studia. Documentati. Chiedi aiuto. Fai terapia se serve.
Sii paziente con te stesso, sii gentile, sii onesto e, soprattutto, prenditi il tempo di fermarti, anche solo per un mese. Per ascoltarti.
Devi fare uno switch dentro. Devi metterti in discussione, studiare, documentarti, ascoltarti. Devi toglierti dalla testa quello che ti hanno detto di essere e iniziare a capire chi sei davvero.
Circondati di persone che ti stimolano, non che ti spengono.
Perché magari non sei perso. Magari sei solo in pausa.
E allora quel viaggio, quella macchina fotografica, quel progetto... possono diventare il tuo modo di ritrovarti. Come lo è stato per me, un frame alla volta.
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