Fotografia a colori vs bianco e nero: perché fotografo (quasi sempre) a colori
Qualche giorno fa, scrollando Instagram, mi sono fermato su un reel in cui una ragazza faceva una riflessione sul colore. A un certo punto diceva una cosa che mi ha inchiodato:
“Ci stanno davvero rubando i colori? No. Siamo stati noi a smettere di usarli.”
Lì ho subito associato questa riflessione alla mia Fotografia.
Perché mi sono reso conto che, forse, il motivo per cui fotografo a colori il 90% delle volte è esattamente questo: è il mio modo di non smettere di usarli. Di non consegnarmi alla rassegnazione del grigio, del nero, del “minimal” che copre tutto.
Io il bianco e nero lo amo, lo uso, ma è una scelta precisa, quasi meditativa. Il mio linguaggio naturale però è il colore. È lì che mi viene spontaneo raccontare le persone, le città, i viaggi, le contraddizioni. È lì che, in qualche modo, cerco i miei ricordi.
Viviamo in un’epoca in cui abbiamo più tonalità a disposizione che mai: display 10-bit, gamut assurdi, software che ti permettono di manipolare ogni sfumatura. Eppure, basta guardarsi intorno: telefoni neri o grigi, auto bianche, grigie o nere, arredamenti in cinquanta sfumature di beige, vestiti neutri, città che si uniformano a una palette “elegante” ma spenta.
Il paradosso è proprio questo: il mondo potrebbe esplodere di colore, ma molto spesso sembra scelga di spegnerlo.
In questo articolo voglio spiegarti perché, invece, io continuo ostinatamente a usarlo. Perché per me il colore non è solo estetica, ma memoria, resistenza e, in un certo senso, un modo per restare vivo.
Chi sono: perché mi ostino a fotografare a colori
Mi chiamo Walter Stolfi e da anni vivo con una fotocamera in mano, a metà strada fra il Sud Italia che mi ha cresciuto e quei pezzi di mondo che mi hanno ribaltato la testa: Asia, grandi città, periferie, mercati, strade qualunque. [ scopri di più su di me ]
Sono un fotografo di viaggio e di street photography, ma prima ancora sono uno che osserva. E quando osservo, la prima cosa che mi colpisce non è mai la tecnica: sono i colori.
Se guardi il mio archivio, ti accorgi subito di una cosa: circa il 90% delle mie foto è a colori. Non perché il bianco e nero non mi piaccia – anzi, lo uso e lo rispetto – ma perché sento che la mia memoria funziona così: quando ripenso a un posto, non lo vedo mai in scala di grigi. Lo vedo nel rosso di un’insegna mezza rotta, nel giallo di una luce sporca sopra un tavolo di plastica, nel blu di una saracinesca graffiata.
Con i colori racconto le cose come le sento, non solo come “sono”.
Quando viaggio, il colore è la prima lingua che parlo: prima ancora delle parole, prima delle traduzioni, prima di qualsiasi spiegazione. Il tono di una parete, il mix di vestiti in una jeepney, il neon di un bar di periferia mi dicono subito se quel posto è stanco, orgoglioso, caotico, malinconico.
Sono cresciuto in un immaginario fatto di anni ’80 e primi ’90, quando le cose non avevano paura di essere vistose: insegne, grafiche, vestiti, giocattoli, pubblicità. Oggi invece viviamo in un mondo che sembra voler smorzare tutto: case neutre, telefoni neutri, auto neutre.
Forse è proprio per questo che continuo a scegliere il colore: è il mio modo di resistere a questa desaturazione collettiva e di restare onesto con quello che vedo per strada.
In questo articolo non voglio parlarti di teoria del colore o di regole tecniche. Voglio spiegarti perché, nella mia fotografia, il colore è diventato una scelta quasi inevitabile. E perché, secondo me, non è solo una questione estetica: è un modo di stare al mondo, di ricordare, di sentirsi vivi.
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Siamo noi che abbiamo smesso di usare i colori
L’idea che qualcuno ci stia “rubando” i colori è affascinante, quasi romantica. Ma la verità è più semplice e anche più scomoda: siamo stati noi, piano piano, a smettere di usarli. Se ripensi agli anni ’90, e ancora di più agli ’80, ti tornano in mente strade piene di automobili rosse, blu, verdi, tute da ginnastica con strisce fucsia, viola e giallo, insegne di negozi dipinte con tinte improbabili ma vive, pubblicità esplose in pattern, gradienti e pastelli. Era un mondo che non aveva paura di farsi vedere.
Oggi, se alzi lo sguardo, il panorama è completamente diverso: una fila infinita di SUV grigi e neri, telefoni praticamente identici con tre varianti di tono – nero, grigio scuro, un “starlight” giusto per darci l’illusione di scegliere – case arredate con palette neutre, minimal, perfette per Instagram ma spesso lontane dalla nostra vera personalità. Il minimalismo è diventato uno scudo, un modo elegante per non rischiare, non esporsi, non dire troppo di noi. Il colore, invece, è scomodo: ti espone, ti tradisce, racconta che tipo di persona sei, cosa ami davvero, quanto sei disposto a farti vedere.
Non è un caso se crescendo molti smettono di indossare colori; è come se il mondo ci suggerisse che va bene giocare da bambini, ma che da adulti bisogna essere “seri”, e che il serio, per definizione, è neutro. Il problema è che questa neutralità non resta solo negli armadi o nei salotti: si infiltra nel modo in cui guardiamo il mondo e, inevitabilmente, nel modo in cui lo fotografiamo.
Gli anni ’80 e ’90: quando il mondo non aveva paura di farsi vedere
Se penso al colore, la testa mi porta subito agli anni ’80 e ’90, anche solo per l’immaginario collettivo che abbiamo di quel periodo. Vedo le videocassette con le copertine disegnate a mano, piene di scritte coloratissime e gradienti assurdi, le insegne al neon delle sale giochi e dei bar di periferia, i giubbotti lucidi, le felpe con loghi giganti, le tute in acetato, le scarpe con dettagli fluo. Penso ai giocattoli, alle prime console, alle grafiche rudimentali dei videogiochi, ai poster appiccicati dentro gli autobus. Era un eccesso, certo, ma era un eccesso vivo.
C’era una palette comune che oggi riconosci subito: rosa pastello, azzurri polverosi, gialli tenui, viola morbidi. Erano colori che non avevano paura di dichiararsi, non cercavano di essere sofisticati, volevano semplicemente esserci, quasi urlarti in faccia “sono qui”. E non è solo nostalgia. Quando cammino in certe città asiatiche ritrovo quello stesso coraggio: mercati pieni di frutta e verdura che sembrano tavolozze di pittori, jeepney, tricycles e taxi decorati come altari mobili, insegne scritte a mano, storte, ma dipinte con lo stesso entusiasmo di un bambino che apre un astuccio nuovo.
In Italia, ma non solo, abbiamo progressivamente abbandonato quella follia visiva, sostituendola con la “sicurezza” del neutro: così non stanca, così non passa di moda. Il problema è che, nel tentativo di non stancare nessuno, abbiamo iniziato anche a non stimolare più nessuno.
Il digitale e l’era del feed coordinato
Quando è arrivato il digitale, si è portato dietro i social, i feed, le palette “coerenti”, le LUT preimpostate, i filtri di Instagram. All’inizio è stato quasi magico: all’improvviso chiunque poteva sperimentare, giocare con il colore, cambiare completamente atmosfera a una foto in pochi secondi. Ma la stessa cosa che ci ha dato questa libertà ha portato anche a un appiattimento enorme.
Quante volte ti sei ritrovato davanti agli stessi schemi? Il feed beige del minimal lifestyle, il teal & orange piazzato in automatico su qualsiasi tramonto, le città desaturate dove sopravvivono solo un paio di toni freddi. È come se avessimo preso il potenziale infinito del digitale e l’avessimo rinchiuso dentro pochi preset “sicuri”, quelli che funzionano, che fanno numeri, che “piacciono agli altri”. In questo processo il colore, invece di restare un linguaggio personale, è diventato spesso una strategia di marketing, un modo per far rientrare le immagini in una tendenza riconoscibile.
Io mi sono accorto che ogni volta che rincorrevo una moda cromatica le mie foto, a prima vista, sembravano persino più “belle”, più pronte per il feed. Ma dentro le sentivo meno sincere. Funzionavano per l’algoritmo, non per me. Non raccontavano davvero quello che avevo provato in quel luogo, in quel momento preciso.
Perché scelgo il colore nelle mie fotografie
Arriviamo al punto: perché fotografo quasi sempre a colori?
Per me il colore è tante cose insieme: memoria, verità (anche se profondamente soggettiva), resistenza e, soprattutto, empatia. È attraverso queste quattro dimensioni che si è costruito il mio modo di guardare e raccontare il mondo.
Il colore come memoria
Quando ripenso a un luogo che ho visitato, non mi torna mai in mente in bianco e nero. Lo rivedo sempre attraverso tonalità molto precise: il rosso dei jeepney che si incastrano nel traffico caotico, l’azzurro slavato di certe serrande abbassate, il giallo caldo di una luce al neon che bagna un vicolo umido, il verde stanco delle piante su un balcone di periferia. Fotografare a colori, per me, è un modo di archiviare queste memorie in maniera più fedele a come le ho vissute. Il colore diventa una scorciatoia emotiva: basta rivederlo per sentire di nuovo l’odore nell’aria, la temperatura sulla pelle, il rumore di fondo di quel momento. Il bianco e nero ha una forza incredibile, ma tende a creare distanza, è come se ti dicesse: “Adesso guardiamo questa scena con un po’ di distacco, mettiamola in una cornice mentale.” Il colore, invece, ti ci ributta dentro senza filtri.
Il colore come verità soggettiva
Non credo che il colore rappresenti la “verità oggettiva” di una scena, anzi. Spesso in post-produzione modifico i colori reali: li sposto, li enfatizzo, li sporco, li ammorbidisco. Ma proprio questo intervento consapevole diventa una dichiarazione: “Questa è la verità che io ho sentito lì.” Magari la luce in strada era neutra, un po’ piatta, ma dentro di me il momento era caldo, intimo; allora spingo sui toni caldi. Al contrario, a volte la scena è caotica e rumorosa, ma io mi sento distante, quasi sospeso; in quei casi raffreddo la palette, tolgo saturazione, lascio emergere solo un colore guida. In questo modo il colore smette di essere semplice estetica e diventa linguaggio emotivo, una vera e propria sintassi con cui costruire la frase visiva.
Il colore come forma di resistenza
Viviamo in un mondo che si sta uniformando su palette sempre più neutre e prevedibili, e scegliere il colore, oggi, è quasi un atto di resistenza. È come dire: “Non ho paura di farmi vedere. Non ho paura di mostrare che questo luogo è disordinato, sgargiante, imperfetto, a tratti persino kitsch.”
Quando fotografo un mercato pieno di plastiche colorate, insegne storte, vestiti appesi ovunque, il rischio del “troppo” è sempre dietro l’angolo. Ma è proprio quel “troppo” a raccontare la verità di quelle persone, di quel quartiere, di quella città. Se addomesticassi tutto in toni neutri per farlo rientrare in un’estetica pulita e rassicurante, tradirei quello che vedo e, soprattutto, tradirei loro.
Il colore, per me, è anche questo: un modo per rifiutare l’omologazione e non accettare che il mondo venga ripulito fino a diventare anonimo.
Il colore come empatia
C’è poi un aspetto ancora più sottile: il colore crea empatia. Una persona con un cappotto giallo senape in mezzo a un marciapiede grigio racconta già moltissimo di sé, ancora prima di vedere il suo volto. Una finestra con una tenda rosa acceso in un palazzo completamente beige dice qualcosa di chi abita lì dentro. Una bancarella dove la frutta è disposta quasi come fosse un quadro ti parla dell’orgoglio e della cura di chi la gestisce. Il colore è quella parte della scena che spesso le persone non sanno di star comunicando. Con il bianco e nero ti concentri sui gesti, sulle forme, sui contrasti; con il colore entri in risonanza con i dettagli che fanno emergere la personalità. Io voglio vedere queste sfumature, voglio sentire le persone prima ancora di conoscerle, e il colore è uno degli strumenti più potenti che ho per riuscirci.
Corsi di Fotografia
Nei miei percorsi dedicati alla fotografia di base e alla Street Photography ti porto passo passo dentro il mio flusso: come scelgo la luce, come costruisco la scena e come uso il colore in fase di scatto e in post-produzione per raccontare davvero un luogo.
E il bianco e nero allora? Una pausa, non una regola
Detto così potrebbe sembrare che io abbia qualcosa contro il bianco e nero, ma non è affatto così. Il bianco e nero per me resta uno strumento potentissimo e ogni volta che lo scelgo lo faccio per ragioni molto precise. Ci arrivo quando sento il bisogno di togliere rumore, anche cromatico, da una scena troppo caotica, quando il vero soggetto non è tanto il luogo quanto la luce che lo attraversa, quando voglio che tutto si giochi sul gesto, sull’espressione, sulla forma pura. A volte è proprio la percezione del tempo a guidarmi: ci sono momenti che sento come sospesi, “fuori dal tempo”, e il colore li renderebbe troppo concreti, troppo legati a un’epoca ben precisa.
In questi casi il bianco e nero diventa una pausa, una specie di silenzio consapevole: è come togliere la musica per sentire solo il respiro. Ma, nonostante questo, resta una scelta minoritaria nel mio lavoro. Se guardo il mio archivio mi accorgo che circa il novanta per cento delle mie fotografie è a colori, e non per abitudine o automatismo, bensì per necessità. Il colore è il linguaggio che mi permette di essere più onesto con quello che sento, di restituire le emozioni che vivo davanti a una scena senza doverle filtrare troppo.
Viviamo in un mondo desaturato (ma non deve per forza restarlo)
Torniamo alla domanda iniziale: “Ci stanno rubando i colori?”. La risposta, per me, è no. Ma è altrettanto vero che viviamo dentro un contesto che ci spinge continuamente a non usarli. La cultura del “tutto coordinato”, l’ansia da feed estetico, il minimalismo trasformato in status symbol hanno reso il colore quasi sospetto. Se usi tinte forti rischi di sembrare “troppo”, “infantile”, “poco professionale”, come se il coraggio di farti vedere avesse sempre qualcosa di sbagliato.
Il risultato lo vediamo ovunque: vestiti neutri per non sbagliare, case neutre per poterle rivendere più facilmente, marchi che scelgono palette sempre più simili tra loro, fotografie piatte, tutte vagamente uguali, costruite per piacere a tutti e finire per non parlare davvero a nessuno. Eppure il colore non è scomparso, si è solo nascosto. È nel vestito che non indossi perché “non è da te”, nel quadro che tieni nel cassetto perché “in salotto sta meglio il bianco”, in quella foto super satura che ami ma che non pubblichi perché “non ci sta col feed”. Da fotografo, io sento il bisogno di fare l’opposto: andare a riprenderlo, tirarlo fuori, rimetterlo al centro dell’inquadratura e, in qualche modo, della mia vita.
Come puoi riportare il colore nelle tue foto (e nella tua vita)
Questo articolo non vuole essere solo una riflessione astratta. Se sei arrivato fin qui, probabilmente anche tu senti che ti manca un po’ di colore – nelle foto, ma forse anche fuori dall’inquadratura. Per questo, invece di darti regole, preferisco lasciarti qualche invito concreto, piccoli esperimenti da portarti dietro nei prossimi giorni.
Il primo è semplice: scegli un colore guida per una giornata. Esci di casa con l’idea di cercare solo lui – rosso, giallo, blu, quello che ti chiama di più – e per tutto il giorno fotografa soltanto scene in cui quel colore è protagonista: una maglietta, una porta, un’insegna, un riflesso su una vetrina. Ti accorgerai all’improvviso di quante cose non vedevi prima. È un esercizio che allena l’occhio, ma anche la mente, a riconoscere il colore come elemento narrativo, non solo decorativo.
Un altro passo è imparare a non avere paura del “troppo”. Quando ti trovi davanti a una scena davvero carica di colori – un mercato, una strada piena di cartelli, un locale kitsch – la tentazione è subito quella di desaturare, di “pulire” l’immagine. Prima di farlo, fermati un secondo e chiediti se non sia proprio quell’esplosione cromatica a raccontare la verità di quel posto. Magari è quel caos visivo che dice qualcosa della cultura, delle persone, del ritmo di quel luogo. Prova a lavorare sulla composizione per gestirlo, invece di usare i cursori della saturazione per cancellarlo.
C’è poi il tema della coerenza cromatica. Non c’è nulla di male nel voler dare un filo conduttore ai propri colori, anzi. Il problema nasce quando insegui soltanto la palette degli altri. Prenditi del tempo per capire quali tonalità parlano davvero di te: se ti attirano i toni caldi, vissuti, un po’ sporchi, se ti fanno vibrare i verdi acidi, i blu elettrici, i rossi intensi, oppure se ti emozionano i pastelli morbidi e le atmosfere da sogno. Da lì, prova a costruire una tua palette mentale e lascia che emerga nel tempo, senza l’ansia di renderla perfetta: l’importante è che sia tua.
Un esercizio potente è anche quello di tornare alle vecchie foto di famiglia. Apri gli album degli anni ’80 e ’90, guarda quei colori imperfetti, le dominanti strane, le pellicole consumate. Noterai come, anche quando sono “sbagliati” dal punto di vista tecnico, quei colori portano con sé una verità emotiva pazzesca. Chiediti come puoi recuperare un po’ di quella imperfezione nel tuo digitale: forse significa smettere di fissarsi sui file ultra puliti e accettare che il colore possa sbagliare, sporcarsi, esagerare, proprio come facciamo noi.
Infine, prova a riportare il colore anche fuori dalla fotografia. Se ti accorgi che scatti sempre a colori ma vivi circondato dal neutro, forse è il caso di fare un piccolo esperimento anche nella vita quotidiana. Compra un capo d’abbigliamento con una tonalità che ti mette leggermente a disagio ma ti attira, appendi un poster davvero colorato in casa, scegli una cover per lo smartphone che non sia il solito nero. Sono dettagli minuscoli, è vero, ma nel tempo iniziano a cambiare il modo in cui ti percepisci e, di riflesso, il modo in cui guardi gli altri e li fotografi.
Presets Lightroom
I preset che uso nelle mie foto di viaggio e di street nascono proprio da questa ricerca: colori vivi ma credibili, ispirazione analogica, niente filtri “Instagram” che appiattiscono tutto. Sono una base da cui partire per costruire il tuo linguaggio, non una gabbia.
Il colore come permesso di essere vivi
Alla fine, tutto torna lì: alla questione del permesso.
Il colore non chiede alla realtà di essere perfetta, le chiede solo di essere onesta. Non ti promette eleganza, ti promette intensità. Quando decido di fotografare a colori, in realtà sto dando un permesso a me stesso: il permesso di ricordare le cose come le ho sentite, non solo come “erano”; il permesso di non aderire per forza a un’estetica neutra solo perché “funziona sui social”; il permesso di farmi vedere per quello che sono, con i miei gusti, i miei eccessi, le mie nostalgie.
Allo stesso tempo, cerco di dare un permesso anche a chi guarda le mie foto: quello di sentire qualcosa. Non solo di dire “bella foto”, ma di agganciarsi a un colore e, da lì, aprire un ricordo, una sensazione, un pensiero tutto suo. Forse è anche per questo che quel reel mi ha colpito così tanto: perché, in fondo, il colore è ancora lì, non è mai davvero andato via. È rimasto in attesa, nascosto negli oggetti, nelle strade, nelle persone, finché qualcuno non gli dice: “Puoi tornare. Puoi occupare spazio. Puoi farti vedere.”
Io, nel mio piccolo, con la fotografia questo permesso gliel’ho dato. E ho la sensazione che continuerò a farlo: per restare fedele ai miei ricordi, alle città che amo, alle persone che incontro e, soprattutto, a quella parte di me che ha ancora voglia di vivere a colori in un mondo che, ostinato, continua a vestirsi di grigio.
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