Fotografia come terapia in viaggio: come ritrovare se stessi attraverso l’obiettivo
C’è una sensazione strana che mi accompagna ogni volta che resto troppo a lungo in un posto. Anche quando quel posto si chiama "casa". Da più di un mese sono tornato a Sud, nel paese dove sono cresciuto, dove c'è la mia famiglia, i profumi che riconosco ad occhi chiusi, la lingua che mi scivola naturale. Eppure, puntualmente, arriva quel momento. Mi sento vuoto. Annoiato. Come se una parte di me stesse chiedendo di andarsene. E quando mi sento così, ritorna sempre quella sensazione sottile ma insistente di non appartenere più davvero a nulla: non sono più del paese, ma non mi sento nemmeno del Nord. Rimango sospeso, a metà, senza un'identità geografica precisa, ma con un mondo interiore che chiede solo di esprimersi.
La cosa buffa è che qui le giornate sono piene: la casa è viva, c'è sempre qualcosa da fare, da mangiare, da condividere. È l'opposto della mia routine al nord, dove spesso sono solo, in silenzio. Ma proprio lì, nella solitudine del Nord, riesco a trovare spazio per la mia voce. Quella che non parla, ma osserva.
Chi sono
Mi chiamo Walter Stolfi [ scopri di più su di me ], e racconto il mondo attraverso la fotografia, i video e le parole. Sono un fotografo di viaggio, un narratore visivo e un osservatore instancabile. Il mio lavoro non è solo mostrare immagini, ma trasformare le emozioni in storie. Se anche tu cerchi un modo per ritrovarti nel caos, forse qui troverai un linguaggio familiare.
Fotografare non è un mestiere. È il mio modo di stare al mondo.
Ieri, dopo giorni in cui sentivo tutto appiattito, sono uscito per una passeggiata. Niente di speciale: una strada che conosco a memoria, luci già viste mille volte. Ma avevo la macchina fotografica con me. E qualcosa è cambiato.
Scattare mi ha riportato al centro. Mi ha rimesso in asse. Come se improvvisamente tutto il rumore, la nostalgia, la confusione, trovassero un ordine. Non era il soggetto davanti a me a contare, ma il gesto stesso di osservare davvero.
In quel momento ho capito che non importa dove sono. Quando guardo attraverso il mirino, torno in contatto con me stesso. Torno a casa.
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"Ma tu, che lavoro fai?"
C'è un'altra cosa che mi capita spesso. Persone che non mi vedono da tanto, o che mi conoscono appena, mi chiedono: "Ma quindi, tu che lavoro fai?"
Rispondere non è mai semplice. A volte dico "content creator", altre volte "fotografo". Se trovo qualcuno che capisce il settore, basta così. Ma la verità è più complessa.
Io sono un fotografo. Ma anche un videomaker. Un blogger. Un youtuber. Un web designer. Un viaggiatore. Un osservatore.
Ma più di tutto: sono uno che racconta storie con le immagini.
Ecco cosa mi definisce. Raccontare per capire. Raccontare per non dimenticare. Raccontare per restituire senso a quello che passa sotto gli occhi di tutti, ma si ferma solo in pochi.
Due case, due vite, un'identità da difendere
Tornare dove sei nato è come aprire una porta sul passato. Ti ci ritrovi dentro tutto intero, anche quando ormai sei cambiato. Da una parte c'è la famiglia, l'affetto, la semplicità delle cose genuine. Dall'altra, il bisogno di solitudine, di nuovi stimoli, di creare.
È un conflitto che si fa sentire ogni volta: restare o andare? Riconnettersi o proteggersi? È come vivere in bilico tra due versioni di te stesso. E l’unico momento in cui queste due versioni si fondono in una sola, è quando creo.
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Il mio linguaggio: la fotografia
Quando scatto, non sono il Walter del mio paesino d’origine né quello del nord. Sono il Walter che ha un linguaggio tutto suo. Uno che traduce il caos in memoria visiva. Che guarda e restituisce. Che ferma l’attimo e, così facendo, si ritrova.
Spesso mi sento dire che non bisogna fare una sola cosa, che non serve restare dentro una nicchia. Ma a me piace fotografare. È più forte di me. E quando sento queste frasi, mi viene il dubbio: sbaglio io? Dovrei fare altro? È come se il mio lavoro venisse percepito come qualcosa di leggero, quasi superficiale — soprattutto oggi, nell’epoca dell’intelligenza artificiale, dove a volte ti basta premere un bottone per generare un'immagine. Ma non è la stessa cosa. Fotografare, per me, non è solo produrre un’immagine: è ascoltare, osservare, sentire, raccontare. È un atto umano.
Non è nostalgia. Non è fede. È solo che ogni volta che torno a osservare, attraverso l’obiettivo, mi sento di nuovo centrato. Anche quando tutto il resto è confuso.
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E tu?
Quando è stata l'ultima volta che ti sei sentito davvero te stesso? Non parlo di un luogo, né di un ruolo. Parlo di quel momento puro in cui ti sei ritrovato. Forse è un gesto. Una passione. Un rituale che solo tu conosci.
Per me è fotografare.
E per te?
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