Viaggio lento: perché non conto i paesi (e racconto meglio)
Elogio del viaggio lento (e perché torno spesso in Asia)
Spesso quando incontro qualcuno che non vedo da un pò, un conoscente, un amico ecc.. mi dicono sempre che “viaggio spesso”, e di conseguenza parte il tris: “Quanti paesi hai visitato?”, “Dove vai adesso?”, “Perché sempre in Asia?”.
Lo so, è un modo gentile per rompere il ghiaccio. Eppure, dentro di me, scatta sempre lo stesso corto circuito: devo rispondere come gli altri si aspettano, o dire la mia verità? La mia verità è semplice: non li conto. Non ho una lista appesa in salotto, non mi interessa aggiornare un numero. Non viaggio per collezionare timbri, viaggio per stare, per capire, per raccontare. E siccome il mio lavoro è raccontare storie con fotografie, video e parole, ho bisogno di tempi lenti, ritorni, rituali. Ho bisogno di fermarmi abbastanza a lungo da imparare il nome del barista e il ritmo del mercato, di perdermi tre volte nello stesso vicolo fino a fargli venire voglia di dirmi il suo segreto.
Succede spesso: “Sei stato a Taipei? Hai visto la 101?”. A volte la risposta è no. Non perché non valga, ma perché non era la mia priorità. La mia priorità sono le persone e i loro ritmi. Preferisco tre mattine nello stesso mercato, una conversazione vera con un barista, un pomeriggio intero a capire come scorre una strada, piuttosto che correre a fotografare “il posto da cartolina” per dire “ci sono stato”. Non mostro che sono stato in un paese: provo a raccontare chi ci vive.
Se cerchi il tour “10 città in 7 giorni”, qui non lo troverai. Qui trovi un invito diverso: scegli meno, resta di più. Il resto è rumore.
Chi sono e perché questa visione
Sono Walter Stolfi, fotografo di viaggio e Content Creator [ scopri di più su di me ]. Il mio lavoro nasce in strada: cammino, ascolto, ritorno. Fotografia, video e scrittura non sono tre canali separati, ma tre modi di raccontare la stessa storia. Quando resto settimane nello stesso quartiere, accadono cose che non vedi se corri: il fruttivendolo che ti saluta per nome, il barista che ti prepara il caffè “come ieri”, il pescatore che ti spiega perché oggi il mercato è più vuoto. Questi sono gli inneschi narrativi che trasformano una foto in una storia, un’inquadratura in una sequenza, un appunto nel cuore di un articolo.
Questa non è una scelta romantica: è metodo. È il mio modo per produrre contenuti che durano e non inseguono il trend del giorno. È per questo che torno spesso in Asia: non per comodità, ma perché lì ritrovo ogni volta una grammatica visiva che mette alla prova il mio sguardo e lo allena a riconoscere sfumature.
Perché contare i paesi è una metrica povera (e ti ruba profondità)
Contare i paesi è veloce, misurabile, condivisibile. Ma è una metrica povera se il tuo obiettivo è capire un luogo, non solo “esserci stato”. Nella stessa nazione possono esistere dieci mondi diversi: Sheung Wan non è Central, Gion non è Shinjuku, Tainan non è Taipei. Dire “conosco il Giappone” dopo 48 ore a Tokyo è come recensire un romanzo dopo aver letto l’incipit.
La verità è che i luoghi non si consumano, si meritano. E si meritano con il tempo: quel tempo che ti permette di prevedere una luce, riconoscere una pausa, capire che il gesto più interessante non avviene davanti al monumento, ma due strade dietro, quando nessuno sta guardando.
Quando un turista fa Roma-Firenze-Venezia in cinque giorni e poi dice “ho visto l’Italia”, noi sorridiamo. Sappiamo che l’Italia che amiamo è nei borghi, nelle province, nelle trattorie dove al secondo giorno ti chiamano per nome, nelle feste di paese dove ti trovi con un bicchiere in mano a cantare qualcosa che non conosci. All’estero è uguale: “essere stati” non è aver visto, è aver capito. E per capire, serve stare.
Il punto non è snobbare i luoghi iconici. Il punto è non sentirsi in debito con una check-list. Se il tuo lavoro – come il mio – è raccontare, la lista turistica diventa un filtro sporco: ti fa cercare cosa “devi” vedere, invece di ascoltare cosa il posto sta provando a dirti.
Perché torno (spesso) in Asia: non è abitudine, è serialità
Perché lì imparo esattamente ciò che mi serve, ogni volta: attenzione, ritmo, cura. E perché ho promesso a me stesso di preferire la profondità alla novità. Non vuol dire che non mi interessi il resto del mondo; vuol dire che non voglio perdermi il meglio solo perché qualcuno, da fuori, si aspetta che io cambi scenario ogni due giorni.
Sì, torno spesso in Asia. Me lo chiedono sempre: “Perché sempre lì?”. Perché lì ho trovato una scuola aperta H24 per chi racconta storie attraverso le arti visive, un set di un film a cielo aperto: contrasti sinceri, ritmi diversi, cibo come grammatica sociale, cortesia che parla anche senza parole, città che cambiano tra mattina e sera come fossero due città diverse. Ogni ritorno aggiunge un layer alla mia comprensione: la prima volta mi oriento, la seconda creo relazioni, la terza entro in profondità.
Non è monotonia. È serialità: una storia in più capitoli che scrivo nel tempo. E quando rientro a casa e monto il video, o seleziono una serie di foto, mi accorgo che ciò che resta non è “dove sono stato”, ma cosa ho capito.
Quartieri che mi hanno cambiato lo sguardo (e il modo di raccontare)
Hong Kong — Sheung Wan
A Sheung Wan ho smesso di inseguire skyline e terrazze perfette. Mi sono abbassato di quota: erboristerie, mercati di essiccati, carrelli metallici, consegne, voci che s’incastrano con la logistica del porto. Quando ci torni più giorni di fila, capisci i riti: l’ora in cui la strada cambia odore, il momento in cui la luce rimbalza sulle serrande e diventa un coltellino che ritaglia i profili dei passanti. Le mie foto si sono fatte più vicine, i video più lenti tra un taglio e l’altro, gli articoli più pieni di nomi.
Giappone — Kyoto, quartiere di Gion
Un mese in Giappone, due settimane passate a Kyoto nel quartiere storico di Gion. Ho imparato che molte immagini non vanno prese: vanno attese. La mattina presto senti il quartiere respirare: passi leggeri, biciclette, negozianti che spazzano con un gesto identico da chissà quanti anni. Ho mangiato ramen nello stesso posto finché il cuoco non ha iniziato a chiedermi “come ieri?”. La ripetizione è preziosa: a un certo punto ti riconoscono. E quando succede, cambia tutto: la camera non è più un muro, diventa ponte.
Taiwan — Tainan
Tainan mi ha spiegato che il cibo non è “una cosa buona”: è lingua viva. Se torni nello stesso banchetto, scopri che dietro un piatto ci sono storie, tempi, famiglie. Le foto diventano più intime, i video più sensoriali, la scrittura più concreta. Non hai fretta di “spuntare” nulla: hai voglia di capire perché quel sapore ti resta addosso.
Thailandia — Bangkok, Old Town
Lontana dalle aree iper-turistiche, l’Old Town è un manuale a cielo aperto di convivenza tra sacro e profano. Qui ho imparato a fotografare i vuoti tra due azioni: la pausa prima di una preghiera, il respiro lungo tra due ordini in una cucina. In video, quelle pause diventano colonne portanti: non decorazione, struttura.
Filippine — Manila e le Isole centrali
Manila è un palinsesto. Makati, Intramuros, Divisoria o Manila Baywalk non si assomigliano, eppure si chiamano ogni giorno. Per capirlo devi camminare, sbagliare, tornare. Nelle isole centrali il tempo ha un’altra grammatica: più lento, più fisico. La fotocamera lo sente: scatti meno, guardi di più, stai di più. E quell’esserci – davvero – cambia il tipo di storia che porterai a casa.
Vietnam — Hanoi, Old Quarter (cattedrale di San Giuseppe)
Hanoi mi ha insegnato a dirigere il caos. Clacson, fili, umidità, fritti che chiamano da lontano. All’inizio è troppo; poi capisci che è musica e puoi orchestrarla. Ho iniziato a lavorare con inquadrature più larghe, tempi più lunghi, appoggi stabili. In scrittura ho smesso di trattare il rumore come nemico: l’ho voluto come personaggio.
Corso Base di Fotografia
Se inizi ora, costruisci fondamenta solide per vedere meglio (non solo scattare). Rendi automatiche le basi, libera la testa per il racconto.
Mettere a terra le fondamenta tecniche per liberare la testa mentre sei sul campo. Meno dubbi, più attenzione al racconto.
Il mio metodo di viaggio lento (che poi è il mio modo di lavorare)
Non è romanticismo; è pipeline creativa. Io funziono così:
Base fissa
Scelgo un quartiere e lo tratto come casa. Stesso bar, stesso tragitto, stessi orari. Questo crea riconoscenze: piccoli “ciao” che aprono porte.Rituali ripetuti
Faccio di proposito le stesse cose per giorni. Vedo variazioni. Le variazioni sono storie.Mappa delle conversazioni
Segno i nomi delle persone, non solo i posti: il fruttivendolo, la signora del tè, il ragazzo del traghetto. Gli appunti diventano metadati emotivi delle immagini.Gear minimale, ascolto massimo
Vado leggero: Ricoh GR IIIx quando voglio stare invisibile, iPhone 16 Pro Max o iPhone 17 Pro Max per appunti visivi, vlog e broll, DJI Osmo Action quando serve l’azione e riprese in pov, Sony A7C II quando sento che la scena merita più range. Meno attrezzatura sulle spalle = più presenza.Trasporti locali, piedi, attese
Autobus, tricicli, camminate. Le attese sono spesso il prologo della migliore sequenza che filmerai quel giorno.Ritorni intenzionali
Meglio tornare a un posto che funziona che aggiungerne tre a caso. Il ritorno è una forma di post-produzione della realtà: rivedi, riallinei, capisci.Zone senza camera
Scelgo dei momenti in cui non riprendo. La rinuncia fortifica ciò che poi decido di mostrare. E fa bene alla relazione con le persone.Diario minimo
Ogni sera poche righe: cosa ho capito oggi? Non cosa ho visto. Quelle righe diventano voice-over, didascalie oneste, idee per articoli.
Come questa filosofia migliora fotografia e contenuti
Fotografia: meno foto, più fotografia
Per me il viaggio lento è un metodo di lavoro: fotografo, filmo e scrivo con lo stesso respiro. Camminando sempre negli stessi quartieri imparo a pre-vedere: so dov’è il controluce alle 17, riconosco i piccoli riti, anticipo un gesto prima che accada; così scatto meno e meglio, scegliendo quando e perché.
Con la videocamera costruisco archi narrativi che nascono dal vivere i luoghi: presentazione, routine, un piccolo conflitto, una piccola epifania; le sequenze hanno ritmo perché io, prima, mi sono dato tempo, e il montaggio non incolla cartoline ma storie che respirano.
La scrittura è il filo che tiene insieme tutto: ogni sera appunto odori, frasi, silenzi, dettagli che il giorno dopo diventano voice-over, didascalie oneste, struttura per il racconto. È un processo circolare: l’ascolto mi porta l’immagine, l’immagine suggerisce la scena, la scena chiama le parole, e le parole mi riportano in strada a cercare meglio.
Meno attrezzatura, più presenza; meno rumore, più attenzione. Questo è il mio modo di produrre durante il viaggio: stare abbastanza a lungo da lasciar maturare le cose e poi scegliere cosa mostrare, con rispetto e precisione.
Mini-guida pratica: come iniziare a viaggiare lento (se vuoi raccontare davvero)
GUIDA COMPLETA ALLA FOTOGRAFIA DI VIAGGIO
Questa è la versione corta, quella che mi porto in tasca quando riparto:
Scegli una sola città e dividila in micro-zone da esplorare a piedi.
Un solo “must” al giorno, il resto lascialo al caso (il caso è un gran location manager).
Torna tre volte nello stesso posto a mangiare: osserva cosa cambia e perché.
Fai domande semplici ai locali: dove fai colazione? quando chiude il mercato? cosa si mangia di lunedì?
Porta meno obiettivi e più pazienza: la leggerezza ti rende più umano.
Accetta di non vedere tutto. In cambio, vedrai meglio.
Vuoi una mano concreta a trasformare un viaggio in una storia?
Nella mia Guida alla Fotografia di Viaggio ho messo esercizi per allenare lo sguardo, checklist essenziali, workflow foto/video (dalla pianificazione all’editing), esempi reali dai miei progetti in Asia e un capitolo dedicato a come creare relazione senza invadere. È pensata per chi vuole smettere di collezionare cartoline e iniziare a costruire racconti.
Se questo pezzo ti ha parlato, la guida è il passo successivo naturale.
FAQ Domande frequenti sul viaggio
Quante settimane servono per “capire” una città?
Dipende, ma per me 2–4 settimane nello stesso quartiere cambiano proprio la qualità dello sguardo. Altra vita.
Non ti annoi a stare così tanto nello stesso posto?
No, perché cambio unità di misura: dal monumento al momento. E i momenti non si ripetono uguali.
Ma i luoghi iconici?
Se hanno senso per te, vai. Io ho smesso di andarci per dovere. Quando ci vado è perché c’entrano con la storia che sto raccontando.
Perché non pubblichi una lista dei paesi?
Perché non racconterebbe nulla di me. Preferisco una mappa dei quartieri in cui ho lasciato un pezzo di me e ho ricevuto qualcosa in cambio.
Conclusione: scelgo meno per vedere meglio
Non credo che “essere stati” in un paese coincida con il poterlo spuntare da una lista. Preferisco poter dire che, in un certo quartiere, qualcuno si ricorda il mio nome o come prendo il caffè. Quella è la mia metrica.
Se mi chiedi “quanti paesi hai visitato?”, ti rispondo ancora: non li conto.
Conto le storie che ho ascoltato, le persone che mi hanno insegnato qualcosa, le luci che ho imparato ad aspettare. E se c’è una cosa che la fotografia mi ha insegnato è questa: quando smetti di correre, le cose iniziano a venire verso di te.
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Corsi: Segui i miei Corsi di Fotografia partendo dalle basi fino alla Street Photography.
Guide Fotografiche: Per scegliere la giusta Fotocamera e Per raccontare storie con la Fotografia.
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